L’articolo qui proposto è un’anticipazione de Il linguaggio dell’impero. Lessico dell’ideologia americana, Laterza, Roma-Bari.
Pubblicato in "Belfagor", anno LXII n. 1 - 31 gennaio 2007 (n. 367), p. 102
C’è un islam moderato? – si chiedono ansiosamente ai giorni nostri giornalisti, politologi e uomini di Stato in Europa e negli Stati Uniti. Ma cosa si intende per «moderato»? Pur essendo quella che sola può dar senso alla prima, la seconda domanda è regolarmente elusa. Accade tuttavia che talvolta ci si lasci sfuggire risposte indirette ma tanto più eloquenti. Ecco in che termini un giornalista statunitense, assai vicino alla dirigenza israeliana, chiarisce il suo punto di vista: «Prima che gli arabi palestinesi si guadagnino il loro Stato, la maggioranza palestinese deve insediare leader sufficientemente coraggiosi per vincere una guerra civile chiamata a spazzar via gli zeloti ribelli che esigono la conquista di Israele». L’ultima parte di questa dichiarazione è solo una cortina fumogena: si vuole nascondere il fatto che in Palestina la stessa Hamas mira in realtà ad un riconoscimento reciproco tra le due parti in conflitto. Una volta diradatasi la cortina fumogena, il senso risulta chiaro: «moderato» è l’islam disposto a scatenare la guerra fratricida, mettendosi al servizio dell’esercito di occupazione; «moderato» è l’islam collaborazionista. Come modello di moderazione è celebrata in Occidente la monarchia giordana, che nel settembre 1970 ha massacrato migliaia di palestinesi, infierendo su un popolo già duramente provato. Più in generale, «moderati» sono i gruppi dirigenti arabi corrotti ma decisi a controllare con pugno di ferro una società civile sempre più indignata per la tragedia del popolo palestinese e per la catastrofe che la politica statunitense e israeliana sta provocando in tutto il Medio Oriente.
Tra Otto e Novecento i sostenitori e gli oppositori del regime di supremazia bianca a livello planetario sottolineano, con giudizio di valore rispettivamente negativo e positivo, il ruolo importante storicamente svolto dai musulmani nel risveglio dei popoli coloniali: è questo l’islam estremista che oggi si intende mettere in stato d’accusa? Nel 1850 uno storico liberale inglese (Macaulay), che pure è un cantore dell’Impero britannico, ne descrive una delle pagine più buie. In un momento di grave difficoltà, esso fa ricorso in India ad un «regno di terrore» senza precedenti: ebbene, a tentare una qualche resistenza è per lo più la popolazione di religione islamica; «i musulmani [sono] più coraggiosi e meno inclini alla sottomissione degli indù». Dobbiamo contrapporre positivamente la «moderazione», almeno in passato esibita dall’induismo, al permanente «estremismo» dell’islam?
Alcuni decenni dopo, Oswald Spengler mette in guardia: l’inquietudine che si avverte tra «i popoli islamici» è il sintomo più significativo della «rivoluzione mondiale dei popoli di colore» contro i «bianchi popoli dei signori». Sul versante opposto la Terza Internazionale saluta nel 1922 «la sollevazione internazionale delle masse musulmane», mettendola in connessione col risveglio rivoluzionario in tutto il mondo dei «popoli di colore oppressi» dall’imperialismo, dei «nostri simili di colore». Si presenta qui con valenza positiva l’accostamento neri-islam-popoli coloniali che tormenta i sogni dei campioni della supremazia bianca.
Tra di essi è da annoverare anche l’americano Lothrop Stoddard il quale, dopo aver preso atto con angoscia del ruolo dell’islam nel movimento anticoloniale, con lo sguardo rivolto all’India, giunge alla medesima conclusione di Macaulay: rispetto all’induismo caratterizzato dal principio castale e da un «ferreo dispotismo orientale», la religione musulmana «esprime numerose tendenze liberali» e ciò può favorire la contestazione della supremazia bianca e occidentale e l’avvento dell’«autogoverno» dei popoli coloniali. Come si vede, un teorico della white supremacy non esitava a riconoscere, sia pure con disappunto, il contributo che l’islam stava dando alla causa della libertà dei popoli oppressi dall’Occidente. Ai giorni nostri, invece, si ama identificare l’islam in quanto tale non solo con l’estremismo ma anche col dispotismo.
Ritorniamo alla domanda iniziale: c’è un islam moderato? La domanda non è nuova. Nel 1922, dopo aver constatato il diffondersi nel mondo islamico di movimenti caratterizzati da «un odio comune per l’Occidente», da un «odio maligno per tutto ciò che è occidentale, ad eccezione dei perfezionamenti militari», Stoddard riporta «le asserzioni di numerosi critici occidentali, secondo i quali l’islam è per sua stessa natura incapace di riforma e di adattamento progressivo allo sviluppo della conoscenza umana». In modo particolarmente netto si esprime a tale proposito Lord Evelyn B. Cromer: «L’islam non può essere riformato, e cioè un islam riformato non è più islam, è qualcos’altro». Sembra di ascoltare gli odierni islamofobi, ma dovrebbe indurre alla riflessione il fatto che a fornire una netta risposta negativa alla domanda che ci stiamo ponendo sono Stoddard, il campione della causa della supremazia bianca (ammirato anche nella Germania nazista), e Cromer, uomo di primo piano dell’amministrazione coloniale inglese dalla Arendt considerato un esponente dell’imperialismo più ripugnante e un campione ante litteram del totalitarismo.
Ma, insomma, c’è un islam moderato? Peccato che di rado questa domanda legittima sia completata con un'altra, altrettanto legittima: c'è un Occidente moderato, o comunque non dogmatico, capace cioè di mettersi in discussione e di comprendere le ragioni degli altri? Senza sottrarmi alla sfida, voglio provare a rispondere ad entrambe le domande. Moderato è l’islam che dà prova al tempo stesso di lucidità, che rinuncia alla pretesa di richiamare in vita, estendendone i confini, il califfato di un passato ormai remoto. Se anche è la reazione ad una lunga vicenda di oppressione e umiliazione, il sogno di cancellare secoli di storia ispira stragi indiscriminate, che talvolta non esprimono neppure un disegno politico ma soltanto un cieco furore teologico. Si manifesta qui la tradizionale debolezza dell’islam che, contrapponendo se stesso come umma o «casa della pace» al mondo circostante, non riesce a comprendere la questione nazionale e ad affrontare adeguatamente le sfide rappresentate dalla modernità e dalle aggressioni colonialiste e imperialiste. Ma i movimenti che sono impegnati a conquistare una reale indipendenza (e che a tal fine aspirano talvolta a costruire un’Unione Araba sul modello dell’Unione Europea) dimostrano di aver saputo apprendere dall’Occidente. E’ una lezione che, una volta appresa, non si disimpara più, nonostante tutti gli sforzi dell’Occidente più estremista e più dogmatico. Quando, in nome della diffusione universale della democrazia quale fondamento stabile della pace, pretende di dettar legge in Medio Oriente e su tutto il pianeta, calpestando sovranità, dignità e sensibilità nazionali, Bush jr. argomenta in modo speculare a Bin Laden; si limita a definire diversamente la «casa della pace», che non è più rappresentata dall’islam bensì dall’insieme dei paesi più strettamente legati a Washington.
E, dunque, come affrontare la tragedia del popolo palestinese e l’ondata di inquietudine e indignazione che scuote il mondo arabo e islamico? Il problema non può essere risolto con piani e promesse mirabolanti di sviluppo economico: in questa illusione l’arroganza del grande capitale (incline a pensare che tutto, anche la dignità di un popolo, è merce e oggetto di compravendita) s’incontra paradossalmente con l’umiltà populistica, secondo la quale a provocare la rivolta è sempre e soltanto la miseria. E’ sotto gli occhi di tutti il fatto che, al di là del contadino palestinese costretto alla fame e del profugo ridotto alla disperazione, ad avvertire crescente risentimento nei confronti dell’Occidente sono anche strati sociali ben diversi. Dovrebbe essere a tutti evidente che, a partire dalla tragedia interminabile del popolo palestinese, ad agitare il mondo arabo ed islamico nel suo complesso è una grande lotta per il riconoscimento, è una richiesta di rispetto per la propria dignità ad ogni livello, individuale e nazionale, è la volontà di farla finita con l’umiliazione e l’oppressione realmente subite o anche solo percepite. Tutto ciò non può essere messo a tacere con appelli generici, retorici, e talvolta ipocriti alla non violenza e al dialogo. A chiarire questo punto sono due autori che dovrebbero essere cari ad ogni occidentale non affetto da estremismo.
Trattato con disdegno da un campione della missione dell’Occidente e della razza bianca qual è Theodore Roosevelt e condannato a causa del suo «insano misticismo della pace» e del suo «moralismo decadente», Lev Tolstòj descrive in modo profondamente simpatetico la resistenza popolare contro l’invasore. Sollevandosi contro l’esercito napoleonico (la più formidabile macchina militare del tempo), piuttosto che venderlo a prezzo vantaggioso alle truppe di occupazione, i contadini russi preferiscono bruciare il fieno. Già tendenzialmente ridotti alla fame, i militari francesi sono colpiti alle spalle in rapide imboscate. Si sviluppa una lotta disuguale e asimmetrica:
Lo schermitore che pretendeva una lotta conforme alle regole dell’arte erano i francesi; l’avversario che ha gettato la spada e ha dato di piglio al randello sono i russi […]. Napoleone lo sentiva, e fin dal momento che si era fermato a Mosca in atteggiamento regolare di schermitore e aveva veduto il randello alzato su di lui invece della spada dell’avversario, non cessava di lamentarsi.
Fermo restando per tutti l’obbligo del rispetto delle norme del diritto internazionale e dell’umanità, è ben comprensibile che contadini e popolani si dimostrino più rozzi degli educati ufficiali e soldati dell’esercito di invasione. Ma ciò non impressiona in alcun modo Tolstòj, che anzi rende appassionato omaggio alla resistenza:
Fortunato quel popolo che, nel momento della prova, senza domandare come si siano comportati gli altri secondo le regole, in circostanze simili, con semplicità e facilità, solleva il primo randello che gli capita davanti e colpisce con quello finché nella sua anima il sentimento dell’offesa e della vendetta si muti in disprezzo e in pietà!
Circa centotrenta anni dopo gli avvenimenti descritti da Guerra e pace, nella Francia invasa e oppressa dalla Germania nazista, a partire dal 1942 comincia a circolare un racconto che consegue un immediato e travolgente successo e che tratta un problema cruciale: come comportarsi nei confronti dell’esercito di occupazione? La trama del capolavoro di Vercors, Il silenzio del mare, è elementare. Siamo alle prese con un ufficiale tedesco, fine, educato, sensibile, innamorato della cultura francese e dello stesso popolo francese, che cerca sinceramente, ma senza alcun successo, di stabilire un dialogo tra occupanti e occupati. I suoi ripetuti tentativi si infrangono in un silenzio ben più ostinato. Per essere autentici, il dialogo e l’amicizia presuppongono un rapporto tra uguali, e tale uguaglianza è resa impossibile dall’occupazione militare. Il momento culminante della vicenda interviene allorché l’ufficiale tedesco si accorge che proprio il suo atteggiamento di apertura è l’arma su cui conta lo stato maggiore dell’esercito di occupazione al fine di rompere l’isolamento e di consolidare definitivamente i suoi piani di dominio:
Ci si presenta l’occasione di distruggere la Francia, e la distruggeremo. Non soltanto la sua potenza: anche la sua anima. Soprattutto la sua anima. La sua anima è il pericolo più grande. E’ questo il nostro lavoro in questo momento: non vi fate illusioni, mio caro! La faremo marcire con i nostri sorrisi e le nostre lusinghe. Ne faremo una cagna strisciante.
Certo, oggi il quadro internazionale, i rapporti politico-sociali, le ideologie sono radicalmente diversi rispetto sia all’età napoleonica sia agli anni del Terzo Reich. E, tuttavia: «moderato» o meglio non dogmatico potrà essere definito l'Occidente, che si rivelerà in grado di comprendere due fra i testi letterari che danno maggior lustro alla sua cultura, l’Occidente che dimostrerà di essere in grado di intendere le ragioni del «randello» tolstoiano e del vercorsiano «silenzio del mare».
Testi citati: William SAFIRE, A war Palestinians ought to be waging, in «International Herald Tribune» del 24 settembre 2002; Thomas Babington MACAULAY, Critical and Historical Essays, contributed to The Edinburgh Review, Tauchnitz, Leipzig, 1850, vol. IV, pp. 273-4; Oswald SPENGLER, Jahre der Entscheidung, Beck, München, 1933, pp. 150-6; Lothrop STODDARD, The New World of Islam, Scribner’s Sons, New York, 1922, pp. 143, 40-1 e 33; Hannah ARENDT, Le origini del totalitarismo (1951; 3° ed. 1966), Comunità, Milano, 1989, pp. 259 e 295-7; Theodore ROOSEVELT, The Strenuous Life. Essays and Adresses, The Century, New York, 1901, pp. 27-8; Lev TOLSTÒJ, Guerra e pace (1868-69), Einaudi, Torino, 1974, lib. IV, parte III; VERCORS (Jean BRULLER), Il silenzio del mare (1942), ed. bilingue, Einaudi, Torino, 1994, pp. 66-7.
venerdì 25 maggio 2007
Iscriviti a:
Post (Atom)